Offese su WhatsApp: sono ingiuria o diffamazione?

L’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è l’immediatezza della comunicazione: nonostante WhatsApp sia una chat istantanea, se la vittima non è collegata scatta il reato.

Se, all’interno di un gruppo WhatsApp, una persona dovesse offendere un’altra, quest’ultima potrebbe sporgere querela o dovrebbe accontentarsi di un semplice risarcimento del danno? La risposta, per quanto a prima vista banale, coinvolge invece una sottile questione giuridica: se cioè le offese su WhatsApp sono ingiuria o diffamazione.

Solo la diffamazione infatti è un reato e, pertanto, consente di “denunciare” il responsabile alla polizia, ai carabinieri o direttamente alla Procura della Repubblica.

L’ingiuria, al contrario, è stata depenalizzata ed oggi è un semplice illecito civile: sicché la vittima potrà chiedere tutt’al più il risarcimento, dimostrando un danno concreto e attuale.

Sul punto la Cassazione si è più volte pronunciata e proprio di recente è arrivata a punto fermo (sent. n. 27540 e n. 17563 del 2023). Cerchiamo dunque di illustrare quali sono i casi in cui le offese su WahtsApp sono diffamazione e quali invece rientrano nella semplice ingiuria.

Qual è la differenza tra diffamazione e ingiuria?

Come abbiamo anticipato la diffamazione è ancora un reato punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire diecimila. Si tratta di un reato minore per il quale, se non c’è un comportamento abituale e in assenza di un grave pregiudizio per la vittima, è possibile usufruire della causa di non punibilità della cosiddetta “tenuità del fatto”. L’imputato evita così il processo e la sanzione penale; resta però la macchia sulla fedina penale e l’obbligo di risarcimento.

L’ingiuria, al contrario, è un illecito civile per la cui punizione non si può sporgere querela ma bisogna avviare una causa contro il responsabile. Nel giudizio la vittima dovrà dimostrare il danno patito. Con la sentenza, il giudice condanna il responsabile altresì al pagamento di una sanzione da versare allo Stato che va da 100 a 8.000 euro nel caso di ingiuria semplice, mentre per l’ingiuria aggravata la sanzione va da 200 a 12.000 euro.

Ma cosa distingue concretamente la diffamazione dall’ingiuria? L’ingiuria presuppone che la frase offensiva sia pronunciata in presenza della vittima e al suo stesso indirizzo. Si pensi a una persona che parla con un’altra e, nel rivolgersi a lei, usa parole sprezzanti e denigratorie.

Nella diffamazione, al contrario, il responsabile non parla con la vittima ma con almeno altre due persone, mentre il soggetto a cui sono rivolte le frasi offensive è assente. È il tipico caso di chi parla male alle spalle altrui e lo fa dianzi ad altri individui.

Perché bisogna capire se, su WhatsApp, è ingiuria o diffamazione?

Il problema delle chat, ossia dei gruppi WhatsApp, è che la comunicazione è “asincrona”: in altri termini, una persona può scrivere un messaggio quando gli altri partecipanti sono (tutti o in parte) disconnessi. Questo però non toglie che la comunicazione verrà ugualmente recapitata e sarà letta in circostanze di tempo e di luogo diverse.

Quindi una persona può rivolgersi a un’altra anche se questa è assente in quello specifico momento, sapendo che successivamente leggerà il messaggio.

Questo è l’aspetto più delicato della questione: il fatto di indirizzare delle offese a una persona iscritta al gruppo WhatsApp può integrare la diffamazione se questa comunque è partecipe al gruppo stesso (e quindi non possiamo propriamente dire che la condotta è avvenuta “in assenza” della vittima)? Ecco cosa ha detto la Cassazione.

Cassazione: le offese su WhatsApp sono diffamazione

Secondo la Cassazione, a ben vedere l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è l’immediatezza della comunicazione che, nell’ingiuria, è diretta all’offeso mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione avvenuta con più persone e non in condizione di rispondere a chi, in quel momento, lo sta offendendo.

Quindi nelle chat di WhatsApp, se la vittima è collegata nello stesso momento in cui il responsabile digita la frase offensiva, in modo che possa leggere il messaggio in tempo reale, possiamo parlare di ingiuria. Pertanto non c’è alcun reato ma solo l’illecito civile dell’ingiuria. Si pensi a due persone che stanno chattando in gruppo WhatsApp quando uno dei due usa delle parole oltraggiose nei confronti dell’altro.

Al contrario, se la vittima delle offese non è connessa nel momento stesso in cui tali offese vengono digitate e “invitate”, allora parliamo di diffamazione, sempre che alla chat partecipino altre due persone oltre al colpevole e alla vittima. Non importa che la parte lesa possa successivamente leggere i messaggi.

Non importa dunque che tale forma di comunicazione venga definitiva “messaggistica istantanea”: tale aggettivo attiene, infatti, alla trasmissione immediata del messaggio ma non implica affetto la contestuale ricezione che dipende da variabili, quale, ad esempio, il cellulare spento, il collegamento a internet e altri fattori.

Dunque se la vittima non ha la possibilità di interloquire in modo diretto con l’autore dell’offesa nell’attimo in cui questa viene “digitata e inviata”, restando così impossibilitato a replicare, si configura la diffamazione.

Il discorso non cambia neanche se le offese, da scritte, sono verbali, come nel caso di messaggi audio che non possono essere letti immediatamente ma devono essere ascoltati.

La Corte afferma che si ha un caso di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone quando l’offeso, i terzi e l’offensore sono presenti nello stesso momento, sia fisicamente che virtualmente (ad es. mediante tecnologie di comunicazione). Se invece non c’è la possibilità di un’interlocuzione diretta tra l’offensore e l’offeso, si configura il reato di diffamazione.

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