Fino a quando dura l’obbligo di mantenimento del padre nei confronti del figlio che non vuole lavorare?
In caso di separazione, va mantenuto il figlio che rifiuta un lavoro? Un tempo, probabilmente, un giudice avrebbe risposto nel seguente modo: «dipende dal tipo di lavoro: se in linea o meno con il percorso di studio del giovane e le sue aspirazioni». Oggi invece, molto più realisticamente, la giurisprudenza risponde di no: non va mantenuto il figlio che rifiuta un lavoro.
Questo perché, secondo il mutato indirizzo della Cassazione, il semplice possesso di un titolo di studio come una laurea non giustifica la decisione di respingere offerte di lavoro considerandole non all’altezza. Il giovane deve sapersi modellare al mercato e alle concrete offerte che questo propone, senza irrigidirsi in inutili pretese che, a volte, non possono essere raggiunte neanche nel corso di un’intera vita.
Ma procediamo con ordine e vediamo quali sono gli orientamenti della Cassazione in merito all’obbligo di mantenimento dei genitori nei confronti del figlio.
Fino a quando il genitore deve mantenere il figlio?
L’articolo 30 della Costituzione prevede che «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio».
Tale obbligo è poi confermato dall’art. 147 del Codice civile secondo cui: «Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli» e dal successivo art. 148 in base al quale: «I coniugi devono adempiere a tale obbligazione in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo».
Tale obbligo permane sia in caso di separazione sia in caso di divorzio sia successivamente al raggiungimento della maggiore età da parte dei figli.
La legge però non dice fino a quando dura l’obbligo di mantenimento dei genitori.
Così secondo l’orientamento tradizionale della giurisprudenza, il genitore resterebbe obbligato al mantenimento del figlio maggiorenne, fino a quando quest’ultimo non trovi un lavoro che gli permetta di percepire un reddito in linea con la propria professionalità, attitudini ed aspirazioni.
Un simile obbligo, tuttavia, sussiste solo se il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica sia incolpevole e non allorché i figli abbiano rifiutato senza alcuna giustificazione occasioni di lavoro.
Il rifiuto ingiustificato di un lavoro fa perdere il mantenimento
La linea della Cassazione è oggi parzialmente mutata. Nella ricerca del lavoro, infatti, il figlio deve sempre tenere conto delle normali e concrete condizioni del mercato.
La Cassazione sembra dire: il lavoro dei sogni non esiste più, bisogna darsi da fare per rendersi autonomi dai genitori il prima possibile. Ecco perché, in caso di divorzio o di separazione, il figlio che rifiuta un lavoro non va mantenuto.
Insomma, il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa in due casi:
- quando il genitore onerato dell’obbligo di versare gli alimenti dimostra che il figlio ha raggiunto l’autosufficienza economica;
- oppure quando lo stesso genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di raggiungere una sua autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di un’attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita.
La stessa Corte sembra però lasciare aperto uno spiraglio per le situazioni eccezionali come, ad esempio, quella del figlio maggiorenne che rifiuta di lavorare nell’azienda del padre con cui è in conflitto.
Più avanza con l’età, più il figlio avrà difficoltà a dimostrare che lo stato di disoccupazione è dovuto al mercato e non a propria colpa. Come detto dalla Cassazione, il genitore che voglia ottenere dal tribunale un provvedimento di cessazione dell’obbligo di mantenimento deve dimostrare che il mancato svolgimento di un’attività produttiva di reddito dipende da un atteggiamento di inerzia oppure di rifiuto ingiustificato. Tuttavia, l’onere della prova ben può essere assolto con indizi come l’avanzare dell’età che concorre a far ritenere che la disoccupazione dipenda da inerzia e non dal mercato.
Con il raggiungimento di un’età nella quale il percorso formativo e di studio, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo inserita nella società, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche (di salute, o dovute ad altre peculiari contingenze personali, o oggettive quali le difficoltà di reperimento o di conservazione di un’occupazione) costituisce un indicatore forte d’inerzia colpevole.